Sahrawi. Pescatori nel deserto. Racconto breve di una terra nomade (e dimenticata)

02.02.2011 15:04

di Valentina Di Cataldo. Foto di Gaia Squarci.

A far rivivere un mondo, di solito, è la forza di certe immagini, foto, colori. A volte è un racconto, la poesia delle parole dette o scritte. Ma può  anche capitare che le suggestioni più magiche e lontane ci arrivino come in un sussurro attraverso le note di una vecchia canzone.

 “Ascoltami, cercami, segui le linee di vento e di polvere su Radio Tindouf. Ascolta il richiamo di voci e deserti, le ombre s’inseguono su Radio Tindouf…” cantavano i mitici Modena City Ramblers ormai qualche annetto fa. All’epoca avevo sedici anni, ascoltavo musica, leggevo qua e là… insomma: cominciavo ad affacciarmi sul panorama del mondo e a fare i miei primi assaggi/esperimenti curiosi. Radio Tindouf rientrava nel mix, insieme a tutte le altre che dipingevano Paesi lontani e inesplorati. Per il momento, quelle parole al ritmo del darbouka, seguite dalla melodia trascinante che le accompagnava, per me erano semplicemente una bella storia, una foto immaginata di nascosto, la suggestione affascinante di un universo sbirciato di striscio, rubacchiando spunti. E per anni tali sono rimaste. Un paesaggio accattivante. L’intreccio di vite vissute in un posto lontano dal mio e appena accennato in controluce. Ma qualcosa, di certo hanno lasciato, se ancora non hanno smesso di risuonarmi nelle orecchie e nel cuore. Per questo, credo che non smetterò mai di ringraziarli, i Modena, per il piccolo dono che, più o meno consapevolmente, mi hanno fatto con questo loro brano. Sì, proprio così. Perché, anche se poi (proprio ultimamente) mi sono imbattuta di nuovo nell’argomento, il primissimo incontro con il tema l’ho avuto grazie a loro.

Forse la storia del popolo Sahrawi è davvero questo: una specie di musica, un mondo nascosto che di tanto in tanto riaffiora come un tesoro tra le miriadi di notizie e situazioni aperte del mondo globale in cui viviamo. Un piccolo frammento che emerge soltanto raramente, grazie a una buona dose di passione, interesse ed entusiasmo, ma che una volta accarezzato rischia di appiccicarsi addosso come una storia mai finita. Provo a raccontarvela così, come una suggestione.

La parola “Sahrawi”, che in arabo significa semplicemente “abitante del Sahara”, è il nome utilizzato originariamente per definire una confederazione tribale di Berberi nomadi i quali, già molto tempo prima dell’arrivo dell’Islam nell’VIII sec. d.C., si insediarono nel territorio compreso tra il sud del Marocco, la Mauritania e la parte ovest dell’Algeria. Al tempo della conquista islamica, i nomadi resistettero fieramente all’invasione, rivendicando la propria diversità etnica e le proprie specificità culturali ed inaugurando una lunghissima storia di convivenza più o meno pacifica a seconda dei momenti e delle vicende storico-politiche.

L’arrivo della nuova cultura araba portò senza dubbio a una sovrapposizione delle etnie, delle religioni e delle usanze, al punto che oggi il gruppo etnico che abita le regioni del Sahara Occidentale si può definire una mescolanza di caratteristiche culturali arabo-islamiche, berbere e centro-africane. Un vero e proprio mix culturale, insomma, che si è stratificato per sovrapposizioni successive nel tempo e che affonda le prime premesse indietro nelle origini. Nei secoli, però, l’innegabile margine di differenza etnico-culturale che contraddistingue i Sahrawi rispetto all’etnia islamica non si è mai annullato del tutto. In generale, vi è da sempre un sentimento di ostilità e di estraneità nei confronti del popolo conquistatore.

Uno dei tanti motivi (strettamente economico e politico) di questa diffidenza è, per esempio, che, quando gli Arabi arrivarono, introducendo nella regione il dromedario, rivoluzionarono le rotte classiche dei commerci dell’Africa settentrionale e se ne riservarono il dominio. Le carovane dei nuovi animali trasportavano sale, oro e schiavi tra il Nord Africa e l’Africa occidentale ed erano gestite dal popolo conquistatore. Presto il controllo di queste nuove rotte divenne così l’oggetto più ambito di discordie, contese, guerre, scontri, rivendicazioni da parte delle diverse tribù berbere nomadi, che volevano riottenerne il dominio autonomo. Tra Arabi e Berberi, insomma, l’integrazione non fu mai del tutto completa e il processo di assimilazione non ebbe mai fine.

In epoca moderna, poi, le cose si complicano. Le grandi potenze coloniali europee arrivarono in Africa nel XVIX secolo e sottomisero le popolazioni locali al loro volere politico imperialista. Nella zona del Sahara Occidentale l’imposizione fu soprattutto francese, ma anche la Spagna si aggiudicò una parte del territorio,  che venne rinominato Sahara spagnolo.

Per i popoli del deserto fu l’inizio della fine. Il governo spagnolo franchista, così come il nemico ma simile regime coloniale francese, riuscirono a imporre confini arbitrari e molto rigidi al Sahara, un deserto che fino a quel momento era tranquillamente libero e percorribile, suddiviso per zone secondo criteri interni e ripartito tra le diverse etnie e tribù berbere ed arabe. I Berberi furono così costretti a stanziarsi e ad abbandonare la loro attività carovaniera, perdendo quella che fino a quel momento era stata la base del loro stile di vita e della loro economia. Come spesso succede, alle tribù autoctone non fu concessa la dovuta importanza né accordato lo status di dignità minimo. Iniziò un vero e proprio regime coloniale, grazie al quale anche i Berberi vennero inclusi nella nuova esperienza di educazione e governo europei. Le nuove frontiere imposte da Francia e Spagna sul territorio ebbero l’effetto di distruggere le strutture di potere preesistenti e lasciarono anche tra i Sahrawi una rete intricata ma confusa di relazioni inter-tribali e un ricordo sbiadito delle realtà e delle situazioni antiche.

Con queste forzate divisioni interne e con l’inevitabile perdita di identità che ne consegue, arriviamo ai giorni nostri.

Siamo a cavallo tra gli Anni Sessanta e gli Anni Settanta. Dopo anni di dominio coloniale europeo, in Africa si assiste all’inizio di un lento, a volte difficile e contraddittorio processo di decolonizzazione. Man mano, tutti i Paesi più grandi (Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto…) dichiarano la propria indipendenza e si costituiscono come Nazioni autonome e sovrane. (L’anno scorso, 2010, è stato eletto simbolicamente “anno dell’Africa” e ci sono state celebrazioni su scala internazionale per i 50 anni dalla liberazione). In questa fase di transizione, la piccola area del Sahara Occidentale si trova ancora una volta ad essere protagonista di eventi politici inaspettati. Dopo la ritirata dei regimi spagnolo franchista e francese e con l’autonomia del Marocco (1956), il Sahara Occidentale rimane occupato, secondo un accordo internazionale, per 2/3 dal Marocco e per 1/3 dalla Mauritania e poi, dal ’79 in poi, interamente dal Governo marocchino, che occupa militarmente il territorio.

Il momento storico che poteva far sperare finalmente in un’indipendenza dell’etnia berbera si trasforma così nel più grande abuso perpetrato nella storia ai danni del popolo Sahrawi. Dal 1973, un fronte Sahrawi per l’indipendenza, chiamato Fronte Polisario, lotta per ottenere un referendum che lasci decidere alla popolazione se associarsi politicamente al Marocco o preferire invece l’indipendenza e fondare concretamente la SADR (Sahrawi Arab Democratic Republic). Ad oggi, però, nonostante che dal 1975 una sentenza della Corte Internazionale di Giustizia decreti la legittimità della richiesta di indipendenza da parte dei Sahrawi, il referendum non si è ancora fatto. La maggior parte dei Sahrawi è stata costretta a fuggire e a rifugiarsi altrove e sul territorio del Sahara Occidentale le lotte continuano, nonostante una missione di pace ONU presente dal 1991 a tutela dell’etnia Sahrawi.

L’organizzazione indipendentista (o meglio si dovrebbe dire “referendista”, dato che tutto quello che chiedono, pacificamente, da anni, è soltanto la possibilità di decidere come governarsi attraverso il voto libero) ha base in Algeria, a Tindouf (quella della canzone), dove i Sahrawi si sono via via rifugiati negli ultimi decenni per sfuggire alla situazione ostile e pericolosa in territorio marocchino.

Secondo quanto dichiarano le Nazioni Unite, l’area del Sahara Occidentale rimane uno degli ultimi più grandi territori non autonomi al mondo. Dal 1991 c’è, almeno ufficialmente, un cessate il fuoco tra i due fronti marocchino e Polisario, ma proprio negli ultimi mesi le ostilità sembrano essersi riaccese a causa dell’ingerenza del Marocco. L’ultimo episodio risale a novembre 2010, quando il governo marocchino ha letteralmente represso nel sangue, sotto gli occhi impotenti dei caschi blu (che, clamorosamente, non hanno il mandato per contenere operativamente le violenze), una dimostrazione pacifica del popolo Sahrawi, che, lasciati i campi profughi, aveva creato dal niente, in mezzo al deserto, un nuovo insediamento, organizzato come una vera e propria città, dove incontrarsi, scambiare idee e opinioni, organizzare politicamente la protesta e rafforzare il senso di identità etnica e sociale condivisa.

Il problema è che della situazione Sahrawi si parla molto poco, soprattutto da noi. I media tendono a non affrontare l’argomento e sono in pochi, tra le persone normali, ad avere un’idea meno vaga della storia e delle condizioni del popolo Sahrawi. Per fortuna, anche sul territorio nazionale, ci sono alcune associazioni che si occupano espressamente del problema. Solo nell’area della Lombardia ce ne sono cinque (tra cui è molto attiva la Gherim di Bergamo, fondata nel 2003), da poco costituite in un comitato di coordinamento che le connette tra di loro. Si occupano di andare a raccontare in giro la loro esperienza, per far conoscere alla gente quello che succede davvero, una volta giù in Africa. Portano carovane di cibo e aiuti agli abitanti dei campi profughi, organizzano, ogni estate, un viaggio di due mesi in Italia per i bambini dell’etnia Sahrawi. Inutile dirlo, sono sempre in cerca di volontari vogliosi di fare un’esperienza indimenticabile sul campo. Di sicuro non sarà una meta da vacanza relax o da week end sballo e rock ‘n’ roll, ma dal lato umano è un’esperienza fortissima e bellissima, che rivela aspetti positivi e inaspettati. Calarsi per due settimane nella realtà di un campo profughi, vivere con la gente del posto, condividere con loro la quotidianità e i progetti, porta sicuramente ad accrescere il bagaglio di tesori inestimabili che un viaggio può dare. Andando in aereo fino a Tindouf, assicurano poi gli organizzatori, non è nemmeno pericoloso passare il confine. Noi occidentali possiamo permetterci di non affidarci a una carovana attraverso il deserto, come invece sono stati costretti a fare i molti Saharawi arrivati in Algeria.

L’impressione che si percepisce dai loro racconti è che ci sia davvero, anche da noi, un bisogno estremo di comunicare, di far sapere, di raccontare, attraverso parole e immagini, la causa Sahrawi, di far conoscere a chi per tanti motivi non ne sapeva niente la storia e la situazione sociale e politica dei campi, ma soprattutto le storie di vita, gli sguardi, i giorni, le voci, i piccoli progetti e i sogni nel cassetto di questi uomini del deserto costretti a vivere lontano da casa, necessariamente legati agli aiuti internazionali, in condizioni spesso difficili, aggrappati alla speranza di raggiungere prima o poi uno status ufficiale. L’immagine che ne emerge è quella di un popolo splendido, maestoso, leale, di una forza sconfinata e di una dignità senza compromessi, che da anni lotta per ottenere il riconoscimento della propria identità.

E certo, conoscere la storia e raccontarcela è il primo passo che noi, da qui, possiamo fare, per far rivivere un mondo, con la forza di certe immagini e con la poesia delle parole. E allora forse ci sembra che, a raccogliere l’invito, ad ascoltarlo davvero, il richiamo di queste storie, a cercare l’altro capo dei loro fili appesi, a seguire (con i passi o anche solo con la mente) le linee di vento e di polvere che da Tindouf si disegnano e si inseguono fino a noi, si possa anche scoprire, alla fine, che in certi casi nel deserto, grazie alla forza di volontà e alla vitalità di un popolo, si possa non solo sopravvivere, ma addirittura pescare come in un coloratissimo mare.

 

 

 

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