Nemico di classe al Franco Parenti. Dopo trent'anni, di nuovo in scena banchi e farina

09.12.2010 16:19

di Valentina di Cataldo

È firmata Massimo Chiesa la regia di questa nuova messa in scena di “Nemico di Classe”,
lo spettacolo di Nigel Williams da noi noto per la sua prima famosissima versione del 1983, con Elio De Capitani alla regia e sul palcoscenico gli allora giovani e non ancora famosi Claudio Bisio, Paolo Rossi, Antonio Catania, Sebastiano Filocamo, Riccardo Bini.

Oggi, lo spettacolo va in scena con Luca Avagliano, Gabriele Bajo, Nicola Nicchi, Daniele Parisi, Giovanni Prosperi, Carlo Zanotti e Giorgio Regali, tutti attori della neonata The Kitchen Company (www.thekitchencompany.it), progetto romano di Chiesa fatto da attori giovani per un pubblico giovane, nel tentativo di attirare la gente a teatro con temi attuali e spettacoli nuovi nella forma e nei contenuti.

In scena per un’ora e passa di fila, gli attori incarnano sei studenti di un istituto tecnico di periferia che,  abbandonati a se stessi, in un’atmosfera a metà tra rivolta studentesca, manicomio e cella d’isolamento, aspettano l’arrivo di un professore, di un supplente o di uno che gli copra l’ora buca. Il clima è da occupazione o da assemblea studentesca (o forse, più semplicemente, da post-intervallo): banchi rovesciati, cartacce per terra, muri incrostati di scritte oscene e divertenti e in un angolo c’è persino un water divelto dai bagni delle ragazze, in cui a turno gli scalcagnati adolescenti si siedono e si stravaccano comodamente.

I caratteri (un po’ stilizzati per forza di cose) ci sono proprio tutti: una carrellata di tipi di quelli che ti potrebbe capitare di incontrare per strada, così, fuori da qualche i.t.i.s. o nei parchetti di periferia. In un’ora e mezzo di spettacolo, i sei personaggi vengono sviscerati dai sei bravi, giovani, attori, che li fanno propri e li tratteggiano in maniera molto realistica. C’è Kinder, il Rumeno spacca-vetri e imbratta-muri che fa dentro e fuori dal riformatorio e dalla presidenza; Bago, il basso che, per vendicarsi del suo complesso di inferiorità, finisce per abbracciare l’ideologia (molto poco coerente, a dir la verità, più che altro un pretesto per sfogare i pugni) neonazista; Broz, il “segaiolo” brufoloso sfigato e invisibile, quello che sta sempre nell’angolo e che tanto nessuno lo considera; c’è il biondino ossigenato e gay, divertente e esagerato, chiassoso e ironico; e poi ci sono i due che si contendono le redini del gruppo: l’intelligente Spino, quello magro, che cerca di far funzionare il cervello e si sente anche un po’ superiore, e Iron, lo spavaldo, tutto muscoli e comandi urlati e fatti eseguire, quello che si crede il capo e nessuno si azzardi a toccarlo, ma che si rivela man mano soltanto carico di una rabbia delusa, disillusa e autolesionista che investe tutto e tutti. (“Ma chissene frega di chi è la colpa ormai. Ha un senso? Io voglio solo fargliela pagare a tutti”, sono le sue battute sul finale).

Lasciati da soli in attesa di conoscere il destino che li attende, i sei giovani, problematici, pieni di rabbia repressa, iniziano, per noia, per gioco o per sfida, a farsi lezione da soli e si ritrovano per la prima volta a dover comunicare davvero. A turno, uno di loro sale in cattedra e propone una lezione su un tema che ritiene interessante. Saltano così fuori tutte le loro paure, le loro ansie, la dose di violenza repressa in cui sono costretti da tempo, in questo mondo che non va e che, soprattutto, non si occupa di loro. Tra le lezioni autogestite, condotte con linguaggio goffo, quasi con vergogna, cercano di trovare una soluzione o almeno una via d’uscita. I temi toccati sono, ovviamente, quelli che più scottano. Primo tra tutti il sesso, e poi la famiglia distrutta, il tentativo di non affogare nella noia o nella rabbia, la volontà orgogliosa e ostinata di attaccarsi a un piccolo segno di colore e di positività, di difendersi dal grigio che incombe e che distrugge tutto (molto bella l’immagine del geranio sotto i mattoni in balcone), i problemi economici, la carne che costa troppo, il razzismo preso come spiegazione di comodo e ideologia (è tutta colpa dei Rumeni, ma se a essere rumeno è uno dei tuoi compagni di banco che fai? Inizi a menarli a partire da lui?), e i problemi reali di integrazione (quando si parla di bruciare vivo un extracomunitario è proprio Kinder, il rumeno del gruppo, l’unico a esultare senza capire.)

Di tema in tema, di tensione in tensione (in scena vola anche qualche schiaffo, non sempre premeditato), i sei ragazzi arrivano a chiedersi come sono finiti qui dentro, in questa classe che sembra una prigione, lontana dai problemi della vita vera e incapace di lasciare intravvedere, proprio come la scuola che stanno vivendo, nemmeno una prospettiva di futuro.

I primi a rendersi conto che così non va sono proprio loro, i sei ragazzi rinchiusi, che non vedono un senso né una via d’uscita al loro stare male, che ogni volta minacciano di mollare tutto e di andarsene, (dalla classe e dalla scuola), di rinunciare anche loro, perché tanto è quello che hanno fatto tutti, ma poi rimangono, a illudersi ancora che qualcuno si accorga di loro e venga a salvarli da loro stessi.

Man mano che ci provano, ognuno a modo suo, si rendono conto che non sanno neanche loro quale sia un modo giusto di fare lezione o di stare al mondo, si accorgono che la loro risposta all’istruzione e alle istituzioni incapaci di prendersi cura di loro, alla fine è altrettanto inadeguata e senza uscita. Perché alla fin fine “che cosa c’è di tanto eroico anche in un cretino che spacca le vetrine?” e poi “come fai a imparare qualcosa se sei sempre così incazzato?”.

E allora qual è il modo giusto? Di sicuro non quello ufficiale, comunque. Questo è certo. E di sicuro il loro non è soltanto un leggero passatempo per ingannare i minuti dell’orologio. Dietro c’è tutto il bisogno che hanno di trovare una soluzione, un’alternativa, un modo per stare al mondo e per salvarsi. Si fa strada via via il loro bisogno di una guida, attesa all’orizzonte del corridoio come una visione celeste che si ostina a non arrivare mai nonostante la disperazione. L’attesa del professore assume allora una dimensione altra, quasi metafisica, diventa l’attesa di un’intera generazione, la richiesta di aiuto che i ragazzi rivolgono alle istituzioni, Scuola, Famiglia, Stato, che non sono più in grado (oggi meno che mai) di accogliere le loro esigenze e di fornire loro riferimenti e punti di confronto per affrontare la vita e il mondo.

Quale soluzione allora? Come farsi ascoltare? “Non ci si può fidare a lasciarvi soli, quindi io non ho più fiducia in voi”, dice il Professore. “Quindi vi abbandoniamo”. Come un deserto dei Tartari in cui si aspetta in eterno e intanto si affonda ogni giorno di più senza una via di uscita.

Il clima in scena si fa pesante. I disegni osceni e le battute volgari (che fanno sorridere per l’ingenuità con cui sono pronunciate) lasciano il posto a una disperazione che fa riflettere. Nel complesso la rivisitazione sembra meno leggera dell’originale. Gli sputi e gli schiaffoni tra Paolo Rossi, Bisio, De Capitani (pure allestiti in clima di piena ribellione e discussione delle istituzioni) si trasformano in mezze frasi e rabbia pura, a valanghe,  che non risparmia niente. A mancare, o a essere trasformata nei modi e nella forma, è proprio la dimensione politica. Quella che negli anni Settanta era un’incazzatura da contestazione studentesca, piena di propositi e di identità sociale, qui si trasforma in un gruppo spaventato e inadatto di ragazzi che ormai non parlano più nemmeno tra di loro e che, sommersi dalla noia, non sanno più nemmeno cosa sono. L’unica costante che rimane certa è quel grido disperato, articolato in forme diverse, che lanciano per essere “tirati  fuori” dalla scuola che ormai è diventata un bunker. L’attesa spasmodica, allucinata, e costantemente delusa del Professore fa il paio con l’ostilità verso tutti i professori reali che si sono susseguiti in passato nella storia di quella classe, tutti incapaci di ascoltarla e tutti immancabilmente scappati dalla situazione di degrado. Quando finalmente un prof. In carne e ossa entra in aula (ma solo per portare via Kinder per atti vandalici), è talmente inadeguato, diverso, goffo, rinunciatario, che è subito evidente come non ci sia possibilità di abbattere il muro invisibile tra le due parti.

Di fronte a questo ennesimo fallimento, dagli spalti, tra il pubblico, vien voglia di alzarsi e andare a parlarci per davvero, con questi ragazzi persi in loro stessi, abbandonati a gestirsi problemi e situazioni più grandi di loro, spesso chiamati a risolvere questioni con cui, a modo loro, riescono a fare i conti molto meglio degli adulti. Cercare di capirli, per una volta. Fargli vedere che non siamo poi così lontani in questa nuova dinamica sociale.

Il buon punto di arrivo del progetto sta proprio in questo, nel mettere l’accento su un problema (anche se siamo ben lontani da un certo tipo di teatro di denuncia) che ci tocca tutti da vicino, chi più direttamente chi meno e cercare di smuovere qualcosa a livello sociale e intrinsecamente politico.

Per una Compagnia nata da poco e composta da attori di un’età media di 26 anni ci sembra già un ottimo risultato.

Ora, come scrive Chiesa sul pamphlet illustrativo, “la The Kitchen Company ha bisogno del pubblico. Dobbiamo cercare di incuriosire la gente e poi conquistarla con i nostri spettacoli. È un impegno difficile, in quanto dobbiamo anche crearci una visibilità per far sapere che esistiamo. È sempre più difficile emergere”.  Perché lo fa? Per costruire finalmente qualcosa, dopo anni di lavoro remunerativo ma senza veri progetti, per il suo futuro di regista e per quello del Teatro, per cercare di dare nuova linfa al teatro (di prosa o meno che sia, aggiungiamo noi) e di riportarlo vicino agli interessi e alle problematiche della gente, primi tra tutti i giovani. Speriamo che sia vero e che, aiutati, oltre che dal loro innegabile talento, anche dai nomi e dalla buona posizione di chi li sostiene, i Kitchen riescano nella difficile impresa.

 

 Informazioni:
Ad ospitare il progetto (che va in scena insieme al suo gemello al femminile, Mea Culpa, di Eleonora D’Urso) fino al 19 dicembre è la sala 3 del teatro Franco Parenti di via Pier Lombardo (mart-sab. 20.45, dom 16.45. Per info e prenotazioni: 0259995206 o biglietteria@teatrofrancoparenti.it. Studenti €10).

 

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