Cremeno-Barzio e l’arte antica di accendere il fuoco (senza diavolina)

21.02.2011 14:26

di Valentina Di Cataldo

Ebbene sì. Almeno una volta nella vita, capita anche ai meno sospetti. Finisce che prima o poi, un po’ per scherzo, un po’ per comodità, dopo anni di bandiere spiegate a favore dei viaggi estremi e dei cammini arditi, quasi senza accorgersene ci si ritrova impegnati in una classica gita della domenica. Un po’ è stata anche colpa di Ale, che “figurati la tenda è scomoda e chi me lo fa fare, piuttosto andiamo in casa”, ma un po’, lo ammetto, ce n’era proprio bisogno.  Sembrerà strano per due che insieme non fanno cinquant’anni e che di certo non rientrano nella categoria dei manager in carriera, ma si può dire che stavolta il motivo sia stato davvero un attacco di “stress da città”. E così anche noi, per una volta, siamo partiti per un normale weekend fuori porta. (Per essere sinceri, siamo partiti di sabato, ma il risultato non cambia). Stufi della solita aria milanese (ultimamente peraltro molto densa di spiacevoli polveri sottili), complice il sole quasi primaverile che ci ispirava progetti di fuga, ci siamo rifugiati nel verde dei bei monti. Destinazione: la Val Sassina, una meta raggiungibile in poco tempo, adeguata alle nostre tasche, non troppo estranea alle dinamiche del mondo di tutti i giorni, ma comunque abbastanza disintossicante per le nostre esigenze.

Barzio è un paesino in provincia di Lecco, a 800 metri di altezza e 15 chilometri dal lago. L’aspetto positivo è che da casa si raggiunge in un’ora scarsa lungo la Milano-Venezia, però si può già considerare montagna, circondato com’è dai profili delle vette e dalle piste da sci. (Quello negativo è che, visto che è così comodo arrivare, nel weekend ci trovi regolarmente tutta Milano, Monza e Brianza in villeggiatura, quindi non è che si riesca proprio a cambiare davvero aria, ma insomma). Cremeno, più piccolo e più tranquillo (qui il turismo attira soprattutto famigliole con i figli piccoli), si trova a pochi chilometri lungo la stessa strada. Lo stile, comunque, è simile. Case basse con pareti in pietra si intrecciano all’architettura del centro del paese, di stile più cittadino.

A rendere più suggestivo il luogo sono i richiami letterari e storici dei dintorni. L’imponente Grigna e la più piccola Grignetta circondano la vallata con le loro sagome antiche, mentre, a pochi chilometri, il manzoniano Monte Resegone controlla placidamente l’andare delle giornate. Ogni anno ad agosto, a Pasturo si tiene la Sagra delle Sagre, occasione per gli artigiani e i produttori locali di esporre i propri prodotti e per i turisti di immergersi nel folklore della zona. E non mancano le attività ludiche o sportive. Al Pian dei Resinelli si organizzano escursioni a cavallo e le piste di Pian di Bobbio sono una tappa obbligatoria per chi ama gli sci o la tavola da snow.

Anche per noi, che non siamo in cerca di passatempi pretenziosi, il panorama è di certo interessante. Il viaggio ci passa veloce e allegro, a suon di reggae, che per l’autostrada va sempre bene anche quando stai andando in un posto (come questo) che con la Giamaica non c’entra proprio un bel niente né per spirito né per latitudini. Arriviamo all’ora di pranzo. L’aria è frizzante e il sole mette addosso buon umore (e anche appetito). Un salto veloce al Mercato della Slinzega (salume tipico di qui) per mangiare qualche crostino con lardo, bresaola e rucola, poi proseguiamo verso la nostra casetta di paese, che è dotata di pareti in legno e tende verdi e ha un’aria simpatica di altri tempi per accoglierci. Siccome oltre ai mobili antichi in sala c’è anche un caminetto, decidiamo di rimandare a domani il pranzo in ristorante e la degustazione di prelibatezze tipiche del luogo. Stasera, invece, ci cimentiamo in una grigliata di carne del posto, che, a quanto pare, è molto gustosa e genuina.

Con il proposito di fare la spesa, usciamo a passeggiare per le vie del paesino. Si sta proprio bene. Finalmente ci sembra di respirare aria pura e soprattutto di avere a disposizione il meritato relax. Ci sediamo tranquillamente a prendere il caffè al bar pasticceria della piazza principale con il suo leone. Qui, senza niente da fare in programma, seduti all’aperto, con davanti agli occhi una vista panoramica molto suggestiva, abbiamo modo di assaggiare anche i cabiadini, i biscotti al burro ricoperti di granelli di zucchero che impastano da queste parti.

Trascorriamo il pomeriggio in chiacchiere e a guardare il tramonto. Poi, verso sera, ci decidiamo a comprare il materiale necessario per la cena e il kit del perfetto uomo dei boschi: legna fine e media, bistecche, tomini, vino rosso. Adesso possiamo cominciare la nostra avventura di mangiafuoco.

Una volta a casa, però, l’impresa si rivela più complicata di quanto ci aspettassimo in partenza. Il primo ostacolo è, effettivamente, riuscire ad accendere il fuoco. Ci rendiamo conto di non essere per niente abituati alla mansione. Siamo cresciuti in città e per di più nessuno di noi ha mai frequentato gli scout. Per quanto mi riguarda, ho una mia teoria rispetto a come posizionare i ceppi nel camino, ma è appunto, soltanto una teoria, perciò non saprei metterla in pratica. Lascio Ale alle prese con la legna e mi dedico all’insalata. Del resto, fare il fuoco, si sa, è da sempre mestiere da maschi. (A me le bacche e le radici, declamo. E mi rintano in cucina a raccogliere lattuga già lavata dal sacchetto del supermercato).

Nel frattempo, il sole è tramontato del tutto e fuori il buio senza luci invade lo spazio visibile, sembra entrare addirittura dentro casa, con una prepotenza incontrastata di cui noi, abituati al continuo inquinamento luminoso di Milano, non ci  capacitiamo. La luna sta appena sorgendo, uno spicchio sottile e lucente come una lama. In questo silenzio, mi sento in pace con l’universo. Finisco di tagliare l’insalata e mi affaccio a controllare come va di là, se anche il fuoco è in armonia con il resto del mondo. Socchiudo la porta e… una nuvola di fumo denso e tossico mi avvolge provocandomi un attacco di lacrime e starnuti! Nella stanza non si vede quasi niente (altro che buio prepotente…)! Corro a spalancare la finestra e finalmente vedo Ale chinato sul caminetto, mentre cerca disperatamente di far prendere la prima fiammella. Mi associo all’ardua impresa aggiungendo il mio vano contributo di esortazioni, preghiere e scongiuri, mentre l’ipotesi di una pizza al trancio si profila sempre più concreta nell’orizzonte della nostra serata. Mi ricordo di aver visto fare il fuoco tante volte dai miei zii, in campagna. A vederlo fare, non sembrava difficile. A questo punto, sfodero la mia teoria, sottraendo al mio uomo il suo primato di accenditore di fuochi e cercando di aggiustare al meglio le dinamiche del legno. Sembra di giocare a Shangai. Già farli stare in equilibrio è una sfida con le leggi della statica e anche con quelle della dinamica. Un ceppo qui, un bastoncino di là, un po’ di carta sotto, ma senza soffocarlo, sembra che funzioni. Trattengo il fiato e… niente. Al decimo tentativo, una scintilla finalmente prende e il gioco sembra fatto. Dura un minuto, poi si spegne di nuovo. Passiamo un’oretta buona a lottare per rifare tutto da capo. Accendiamo e lasciamo morire in cenere per almeno quattro volte. Alla fine, esausti, stiamo per lasciar perdere e uscire davvero in direzione del ristorante all’angolo, quando Ale propone un’ultima, estrema soluzione: la Diavolina. Cubetti di petrolio liofilizzato e pressato in una barretta chimica, bianca e friabile che puzza peggio di una torcia da circo. Inorridisco (Le esalazioni di quella roba sulla nostra cena?), più che altro ferita nell’orgoglio. (Suona come un’esplicita ammissione di incapacità). La strategia, però, sembra funzionare. (In fin dei conti, meno male che a qualcuno è venuto in mente di inventare gli inganni della tecnologia per aiutare noi cittadini).  Inaspettatamente, grazie alla perizia di Ale (del resto, si sa, fare la grigliata è mestiere da uomini, anche se con qualche trucco, ma soprassediamo), un bel fuocherello scoppietta nel camino e sembra intenzionato a non spegnersi tanto in fretta. Evviva! La cena è salva! Niente pizza! I risultati sono davvero prelibati e li gustiamo ancora di più perché sono stati così sofferti.

La serata passa in maniera conviviale, tra chiacchiere, letture, musica e silenzi rilassati. A mezzanotte sembra davvero notte fonda. Usciamo a camminare per le strade deserte del paese, godendoci la stellata meravigliosa nell’aria fredda della notte. Poi a nanna. Domani giornata sulle piste.

Il mattino dopo, per fortuna, è ancora un bel sole ridente a svegliarci dalla finestra. In un attimo siamo pronti. Una tappa per fare colazione alla pasticceria del paese, rinomata per i suoi krafen, poi via. Si va sulle piste. Pian di Bobbio. È una domenica mattina splendida, di quelle come non se ne vedevano da un bel po’. L’autobus è affollato di ragazzi, famiglie, bambini, bardati con le attrezzature. Noi ci godiamo il caldo insolito. Il panorama che si vede dalla funivia fa quasi impressione, sospeso sulla gola senza neve. In cima però, per fortuna è tutto bianco. La prima cosa da fare, per noi che non sciamo, è trovare un angolino tranquillo e noleggiare le sdraio. Poi, non resta che sdraiarsi al sole e godersi il tepore per tutto il giorno. Incontriamo altri amici. Niente di meglio che un po’ di chiacchiere tra una discesa e l’altra.

Facciamo una pausa per pranzo. Pizzoccheri, polenta taragna, con i formaggi, slinzega, cabiadini e in pomeriggio ci concediamo anche una cioccolata calda con panna. (Se non qui, dove?).

Quando il sole tramonta dietro la cima innevata, decidiamo di affrontare la discesa. Coda, funivia, paese, casa. Sistemiamo un po’, poi si riparte. Il viaggio di ritorno è un po’ più trafficato e lungo. Saranno i soliti ritmi milanesi che ci stanno pian piano riabbracciando? Può darsi. Il week end, però, è stato davvero carino e riposante e adesso siamo pronti a ricominciare le nostre stressate settimane.

 

 

 

—————

Indietro